L’amicizia va bene per gli hashtag

L’argomento che vorrei affrontare oggi, sola di fronte alla mia tastiera e ascoltando Zibba, è banale, abusato e scontato. Ma è anche fondamentale, basico, imprescindibile.

Lo tralasciamo sempre e in tanti, affascinati dall’appeal sfrontato del suo parente  passionale: l’amore.

L’amicizia va bene per gli hashtag, per il #solocosebelle di un’estate da single. Ma l’opinione generale  è che sia molto facile metterla in cantina quando l’inverno sta arrivando e la necessità impellente si realizza in uno scaldino sotto le coperte.

Potrei uniformarmi alla norma e dire che le mie amiche si contano sulle dita di una mano. Che loro ci saranno sempre, che fanno parte di me. È vero, ma non esaurisce la natura del ragionamento.

Non so come funziona per gli altri. Se ti fai molte (troppe) domande e metti costantemente in discussione le tue convinzioni e i tuoi rapporti, è inevitabile che anche gli amici, o presunti tali, risentano dei tuoi sbalzi connettivi. Non sono mai stata brava a tenermi le persone.

Molti anni fa, un amico mi disse che non eravamo fatti per la condivisione  e per la vita di gruppo, che il numero non sarebbe mai stato la nostra risposta. A tutt’oggi non riesco a credergli.  Se sono un animale sociale devo esserlo senza filtri o facili elitarismi; si vivono momenti di grande comprensione anche nelle situazioni più inaspettate, in odore di una possibilità che non necessariamente andrà a realizzarsi.

Sono per natura un essere espansivo, do d’istinto confidenza a tutti e ho il difetto intrinseco di raccontare le mie impressioni più recondite e spontanee al primo che passa. Credo che la motivazione sia una speranza atavica nel genere umano.

Al tempo stesso, tuttavia, ci metto pochissimo a capire se non c’è trippa per gatti. Se, in altre parole, il mio amo è mal riposto. In questi casi risulto “refiosa”, antipatica e esclusiva.

Le mie amiche sono esseri eterogenei, multiformi. Hanno poco in comune l’una con l’altra, fanno vite diversissime e hanno obiettivi non paragonabili.

Sono le persone che ci sono anche se non ci sono. Sono quelle a cui non sempre chiedo un parere esplicito, ma che sono presenti in ogni mia decisione. È raro che mi appoggino alla prima, ma non mi danno mai contro per presa di posizione. Meglio ancora, sanno contenere i miei pessimismi e sanno parlarmi dei loro con lucidità e sincerità.

Non che nella storia non abbia preso facciate. A volte anche il mio radar ha fallito, con conseguenze disastrose, come potete immaginare. È capitato anche a me di confondere l’amicizia con le risate, i balli, le ore a prepararsi e a confidarsi.

Uno dei pochi traguardi conseguiti con l’età è che adesso so che un’amica non è necessariamente quella che ti presenta il tipo carino. È quella che si ostina cercare di capire perché quel tarlo sta scavando proprio la tua testa. Anche se ci vogliono ore, anche se nel frattempo il tipo carino ha già rimorchiato un’altra.

Non smetterò mai di aspettare e comprendere chi ha speso anche solo un minuto, anche solo un neurone, a commentare, confutare o giustificare un mio comportamento.

Il più grande regalo che le mie amiche possono farmi è la loro attenzione. Intermittente, per carità. Ma puntuale.

In cambio, posso solo garantire loro che ce la metterò tutta per dimostrare che sono uniche e che la strada che hanno intrapreso è quella giusta . Perchè essere veri amici è difficile almeno quanto essere onesti con se stessi. E loro, per quanto mi riguarda, ci stanno riuscendo benissimo.

I migliori outfit della nostra vita

Domattina, dopo due mesi e 9 giorni di inattività, ozio, fannullosità e fancazzismo, torno in ufficio.

Il punto è che non torno nel mio ufficio, quello con il cactus e il porta forbici a forma di lumaca (meraviglioso, ve lo regalano se ordinate su Rajapack), quello con le mie amorevoli colleghe da spupazzare e faldoni strapieni di anni e anni di appunti. Quello con la finestra sul verde dei parchi, i merli, il gatto che cade dal piano di sopra eccetera. Tra la nostalgia e gli odori familiari.

Subentro in un ufficio sconosciuto, con colleghi e capi sconosciuti a fare un lavoro sconosciuto. Quindi, immagino, sarò anch’io una sconosciuta.

Mi sono lavata i capelli e ho già preparato la borsa, per non dimenticare cose fondamentali come la pinzetta per le sopracciglia dipinta a bambolina o il mio romanzo di sicurezza, che in questo momento è L’amante giapponese della Allende. Quando ci si sente persi le cose del quotidiano aiutano, proteggono. La tranquillità val bene una borsa 48 ore.

Resta da decidere cosa mettermi, per presentarmi ad un primo sguardo in tutta la mia personalità complessa, seria ma fuori dalle righe, affidabile ma non convenzionale. Soprattutto sobria, quindi bando ai miei amati accessori troppo etnici e le mie gonne troppo colorate.

Per imparare dai miei errori ho cominciato a pensare a com’ero vestita nei primi giorni delle diverse tappe che hanno segnato il mio percorso. Ho ripensato alle serate di vigilia, alle difficoltà ad addormentarsi e alle aspettative, non sempre deluse ma mai realistiche. E’ il retrogusto di avere una fervida immaginazione, si scartano sempre troppo in fretta le ipotesi più probabili.

Comunque, il primo giorno delle elementari indossavo un vestito rosa di quel tessuto che fa un po’ le grinze, ricamato sull’orlo con dei fiorellini. E in questa descrizione emerge tutto il mio non essere una fashion blogger.

Lo ricordo grazie a una foto, scattatami da mia mamma insieme a un simpatico cagnetto di cui non ricordo il nome, ma voglio ancora molto bene al padrone. Era perfetto, grazie nonna. Facevo la mia porca figura da brava bambina bionda.

In prima media, ahimè, ero già abbastanza grande da decidere da sola. Mi presentai in classe con una salopette corta arancione sopra all’immancabile maglietta nera delle Spice. Un must, la adoravo. Credo fosse già lisa e consunta ai tempi, ma in un pre-vagito punk, me ne sbattevo. La salopette arancione me la sogno ancora di notte.

Al liceo non mi è andata meglio. Dato che andavo al classico e temevo i fighetti più di qualsiasi altra cosa al mondo, cercai di camuffare le mie origini proletarie con le griffe. Che, al tempo – date le scarse risorse e la poca esperienza -, significavano Adidas. Tranquilli, rabbrividisco anch’io.

Jeans a pinocchietto Benetton un po’ lucidi (esistevano) abbinate a Gazelle argentate e maglietta Adidas blu e grigia (ma dai?!). Un bijou del più becero capitalismo, fortunatamente soppiantato a brevissimo da pantaloni XXL, altrimenti detti “giro culo”. Vabbè, erano gli anni ’90, o quasi.

Righe orizzontali per l’immatricolazione universitaria, righe verticali per il colloquio a Nervi. Nel secondo caso, tradotti in una camicia scazzo coreana (troppo hippie) e jeans chiari con risvoltino. Sì, sono in grado di anticipare anche le tendenze più odiate.

Tirando le somme, una gonna e quattro pantaloni, me la sono poi sempre cavata. Tra amore e odio, sempre troppo esposta e polemica, mi sono ambientata in fretta in tutti i luoghi di frequentazione forzata e assidua. Mi sono sempre divertita, perchè lo spirito goliardico fa parte di me e quando ho a che fare con un gruppo tendo a ricreare l’atmosfera da spogliatoio, la più sana.

Ho deciso. Domani riparto dalla bambina bionda e metto un vestitino.A quadri, tanto per cambiare. Lo suderò nel tempo di arrivare alla stazione, a Principe sarà già tutto spiegazzato.

Ma non importa, perchè lo abbinerò a un grande sorriso.

Mica come questa qui:

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Violetta vive, l’Europeo non più

Avrei voluto raccontarvi la mia due giorni veronese all’insegna della cultura con entusiasmo e citazioni auliche, ma me ne son successe talmente tante che mi vien difficile ripulire il ricordo.

Che anche la stagione lirica estiva possa risentire di condizioni meteo avverse è scontato. Alcuni bolognesi raccontavano che lo scorso anno, con un’estate bella piena e calda, delle cinque opere a cui hanno scelto di assistere ben tre sono state sospese per pioggia e poi ricominciate a singhiozzo con notevole disagio, oltre che del pubblico, di orchestra e cantanti, costretti ad un dentro-fuori dal personaggio che rasentava la schizofrenia.

L’Arena è anche questo. Fanno parte della suggestione infinita le candeline di Matilde Vincenzi, i gradoni incandescenti e scomodi e la possibilità di piogge improvvise.

Ma quella della Traviata è stata un’esperienza insolita.

A cominciare dalla meravigliosa scenografia, composta da enormi cornici mobili (in grado di piegarsi su se stesse e sollevare un’acrobatica Violetta), un pavimento di specchi – di cui vi lascio immaginare la scivolosità – e maxi ritagli di giornali ottocenteschi, forse a richiamare l’origine cronachistica del soggetto trattato da Dumas prima e Verdi poi.

Carmen e Traviata hanno in comune che alla loro prima rappresentazione furono considerate un fiasco. Questo week-end si è tentato di ripetere la prima impressione storica.

Venerdì, in realtà, la Carmen con regia di Zeffirelli è arrivata fino in fondo, senza sbalzi temporaleschi. Non mi ha, però, del tutto convinto. A eccezione di una Micaela commuovente (la russa Ekaterina Bakanova), sempre pulita e precisa nel canto e davvero adatta alla parte, ho trovato l’allestimento un po’ eccessivo. Un “carrozzone” con centinaia di comparse in scena, balli incessanti, cavalli, asini, costumi ingombranti. Escamillo (Dalibor Jenis) tendente al mediocre. Per una amante del teatro di prosa e d’avanguardia, risulta anacronistico, troppo e per troppe ore.

La Traviata nell’allestimento di Hugo de Ana, invece, prometteva benissimo. Vi ho già detto della scenografia, aggiungo un cast tutto italiano (sopra le righe Francesco Demuro nel ruolo di Alfredo) e costumi moderni e vivaci. Coro e ballerini hanno inscenato, seppur con la difficoltà di un palcoscenico in discesa e leppego, momenti di rara armonia, cogliendo lo sfarzo della movida parigina e attualizzando un amore disperato senza tempo.

Peccato la pioggia, che non ha dato tregua dalla fine del primo atto. Peccato gli intervalli oltre le interruzioni, i tentativi di recupero, la distrazione generale.

Sì, perchè ad aggravare la situazione c’era Italia vs Germania. Nel buio dell’Arena brillavano lucine verdi, schermi di smartphone su cui, in streaming con diversi livelli di ritardo, i malcapitati mariti cercavano di sopperire all’impossibilità di vedere il quarto di finale di EURO2016.

L’immagine era un po’ triste. Nonostante anch’io ricevessi aggiornamenti tramite sms, trovo che guardare spudoratamente la partita seduti in platea (in una poltrona da 200 euro) sia stata una mancanza di rispetto e una caduta di stile.

Per non parlare della claque tedesca che al gol di Ozil ha esultato tirando addirittura fuori una bandiera. Da bravi italiani, potete immaginare, abbiamo risposto con un “in culo Germania”, al momento del pareggio che, peggio per la povera Violetta, coincideva con l’aria celebre per “Amaaaami Alfredo”.

Alfredo continua ad amarla, perchè Violetta sabato non è morta. Lo spettacolo è stato definitivamente interrotto alla fine del secondo atto, dopo il saluto al coro. C’è stato il tempo, però, per guardare i rigori.

Non è servito l’annuncio dello speaker, non vi è stata reazione all’ingresso dell’orchestra, che è rimasta in piedi (credo basita). Il pubblico di gradinata, poltrone e platea si è riunito in capannelli a guardare i penalties su tablet e iphone dei più attrezzati. Visti i differenti canali di trasmissione, le diverse aree dell’Arena visualizzavano i rigori a intervalli differenti, esultando a ritmi sfasati e rendendo difficilmente comprensibile l’esito della competizione.

Sembravamo scemi. Noi e i tedeschi, alienati di fronte a uno schermetto e trepidanti di sfottere il compagno straniero di spettacolo.

Non mi stupirei, se la decisione di interrompere definitivamente l’esecuzione dell’opera sia stata in parte influenzata da questo comportamento infantile e maleducato. Fossi stata Violetta mi sarei offesa, è perfettamente nel personaggio. E’ tuttavia più probabile che lei stessa stesse seguendo gli azzurri dietro le quinte.

Ricapitolando, la Traviata è terminata senza il terzo atto ed è stata più volte interrotta. L’Italia ha perso e nessuno dei suoi attaccanti è stato in grado di segnare un rigore. Il nostro pullman è poi morto, costringendoci ad una nottata di attesa e preoccupazione.

Capita che non ne vada bene una, per carità. Ma è stato un esempio significativo di un mondo che non sa scegliere, ma vuole tutto. Spesso senza ottenere nulla.

Il tempo per cambiare

Nel nostro io c’è successione senza esteriorità reciproca,

fuori dell’io esteriorità reciproca senza successione.

H. BERGSON

Ehhh?! Ok, la citazione non è di quelle da aforismi.it e probabilmente stona, in questo blog frivolo.

Ma la formazione umanistica ci rincorre e su alcuni temi non si possono che scomodare i grandi. Dopotutto, ho buttato nel cesso il mio futuro per immergermi nella filosofia, lasciatemi almeno il piacere di citarla a casaccio.

Il concetto di Bergson, inoltre, si presta ad essere semplificato in maniera quasi proverbiale. Il tempo corre, quando ci si diverte. C’è un  tempo scientifico, fisico, dell’universo e c’è un tempo della coscienza, della qualità, della percezione. Sono distinti e inconciliabili.

Ormai, mi sento un’esperta mondiale della questione tempo. Ho vissuto gli ultimi cinque anni rincorrendone ogni istante, con una frenesia che avrebbe meritato i migliori psichiatri. Da due mesi a questa parte, per contro, ho avuto di fronte ogni mattina la nullafacenza più assoluta.

Era dall’estate della maturità che non mi fermavo in maniera così totalizzante. Ed evidentemente ci voleva un agente esterno, un fattore scatenante, un incidente che mi immobilizzasse, insomma.

Quando ho capito che il tempo sarebbe tornato mio, che sarei stata sola con le mie ore, ho provato una vertigine di paura. Anche se affascinata da una vita scandita da ritmi naturali, temevo di rimanere schiava della giornata vuota e della noia. Come facessimo, al liceo, a stare tre mesi senza far nulla, mi sembrava un mistero.

Vivere, poi, con qualcuno che lavora (tanto) aggiungeva ai miei timori una certa sindrome della casalinga. Son qui, non ho niente da fare, perché non pulisco un po’ sopra gli armadi, lavo le tende o provo a cucinare un buef bourguignon? Vi lascio immaginare i risultati di questi istinti espressi con scarsissima capacità generale e la mano destra fasciata…

Il problema del tempo, all’inizio, era sfruttarlo con attività utili e costruttive; darsi un lavoro al di fuori del lavoro, per affermare un impegno (nei confronti della società, immagino) sempre vivo, sempre attivo.

Ha funzionato, per un buon mese e mezzo sono stata felice nella mia nullità mascherata da piccole cose, scrivere e sfornare torte di zucchine. Ho sempre continuato a fissare la sveglia al mattino, potendomi però concedere quei cinque minuti in più che la vita da pendolare mi aveva drasticamente negato.

A mano a mano che le mie dita riprendevano mobilità, si insinuava in me il desiderio di avere una vita più lenta, di trovare una dimensione Zen che mi permettesse di rapportarmi a me stessa con più indulgenza. Ho coltivato l’ideale di continuare a pretendere il meglio dalla mia vita, ma con ritmi più umani, cercando di limitare la funzione multitasking che noi donne possediamo e di indirizzarla verso attività piacevoli, non necessariamente utili.

Sono addirittura stata alle terme, vincendo imbarazzo e spocchia.

E poi? E poi la vita decide per noi. Ho deciso di cambiare lavoro. Di lasciare il mio nido, caldo accogliente e amichevole, per una nuova avventura, incerta, esigente e sconosciuta. Sono ripiombata nell’ansia da prestazione e vivo questi ultimi giorni a casa come se fossi sui blocchi di partenza, curiosa e iperattiva come non mai.

Ciascuna coscienza ha il suo tempo, Henry. Evidentemente sono destinata a vivere una vita da stacanovista.

Questa esperienza, però, qualcosa mi ha insegnato. Per comprendere la vita di qualcuno è necessario tararsi sul suo orologio, percepire i suoi momenti. Pensateci, prima di mettere fretta a chi sembra immobile, probabilmente sta progettando un futuro più lungimirante del vostro.

Savona verde speranza

Alla fine è successo davvero. Per quanto l’esito del ballottaggio fosse scontato ai più – almeno stando alle dichiarazioni del lunedì – la tornata amministrativa savonese è conclusa e a guidare un Comune ricco di puffi e difficoltà sarà la coalizione di centro destra.

La Lega perde Varese, ma vince Savona. Gli amici del Carroccio si accorgeranno presto di quanto lo scambio gli risulti sfavorevole.

Su Facebook ci siamo sbizzarriti, ma ha votato meno di un savonese su due. Il dato definitivo dà l’affluenza al 49,38%. Maluccio, soprattutto pensando alla storia partecipativa della città e considerando che siamo dieci punti sotto a una realtà come Benevento che è riuscita nell’enigmatico compito di eleggere sindaco Mastella. Avete capito bene, Mastella, ahimè.

A Savona hanno votato molte più teste che cuori.

I voti raccattati dalla candidata vincente Ilaria Caprioglio nelle due intense settimane che hanno seguito il 5 giugno sono stati, manco a farlo apposta, 4.444. I 613 di Carlo Frumento, alcuni delusi grillini e chi ha scelto di seguire l’indicazione di voto di Giampiero Aschiero.

Non credo, e non voglio credere, che si sia trattato solo di un voto contro. Il movimento di Grillo e di Casaleggio, redivivo sui social come messia delle apocalissi torinese e romana, a Savona ha fatto cilecca. Pensare che alcuni di loro abbiano ripiegato sulla Caprioglio per odio nei confronti del nemico giurato di ieri è offensivo.

Hanno scelto di promuovere una giunta della discontinuità e, proponendosi come il nuovo, si sono assunti il rischio di dare a Savona un’amministrazione inedita, anche se non trasparente e antipartitica come avrebbero voluto.

Un’operazione senz’altro lecita che, tuttavia, cela un pericoloso precedente. Solo restando imparziali avrebbero confermato quell’atteggiamento di arrogante superiorità che tanto hanno ostentato in campagna elettorale. Oltre a perdere un’occasione storica, hanno dimostrato di poter perdere in futuro unione e elitarismo.

Riguardo a Cristina Battaglia, i savonesi che hanno scelto di sostenerla nella sfida finale pur non avendolo fatto al primo turno sono stati appena 1537. Se Ravera si bevesse il cervello cercando di salire sul carro del perdente potrebbe dire che sono i suoi. Ma non lo sono e credo che il buon Marco ne sia fiero.

Tanto per riesumare una polemica sempre florida, i voti di Sel e Rifonda  non sarebbero comunque bastati. E’ il leitmotiv giustificazionista più triste e preoccupante di tutta la storia.

Perchè Savona ha punito la Battaglia? Perchè è di Genova.

Ma non solo, Cristina ha pagato il malgoverno di altri (Renzi e Berruti su tutti) e non è stata pronta o libera di tradurre in nomi le promesse elettorali. Se lo avesse fatto, anzichè cincischiare anche sulle candidature assolute e universalmente apprezzate (vedi Elisa Di Padova), forse staremmo commentando un’altro risultato.

Invece apriamo le porte di Palazzo Sisto a una giunta in gran parte leghista che ha inaugurato il mandato costellata da un’orda di troll a braccia tese che intonava un anacronistico “chi non salta comunista è”. Solo i giornalisti di Primocanale, ormai abituati al peggio, sono riusciti a non imbarazzarsi. Ilaria Caprioglio imbarazzata lo era parecchio.

Lo sono anch’io. Mi imbarazza anche dire che voglio essere ottimista. Che mai come oggi la fame di miglioramento e la voglia di dimostrare di essere all’altezza potrebbero influire positivamente sull’amministrazione della città.

Non è un augurio vuoto: lasciamoli lavorare, controllandoli criticamente a ogni passo, ma con serenità.

Toti già punta alla partita genovese e ha un anno di tempo per ergere Savona a feudo funzionale del neo-rinato centrodestra ligure.Chissà che non ne venga fuori qualcosa di buono.

Se così non dovesse essere il PD savonese avrà un po’ di tempo per fare tesoro degli errori, epurare dalle sue fila i personaggi più scomodi e mal visti e studiare sul territorio un nuovo corso, lontano dal renzismo e dai ministri Pinotti e Boschi, vero repellente per il savonese medio.

Gli errori, in questa campagna elettorale, sono stati tanti. Cerchiamo almeno di lasciarceli alle spalle.

 

 

L’amore non è un paese per indifferenti.

Matrimonio a prima vista Italia. Chi non l’ha visto non può capire.

E anche chi non ha Sky, pensandoci.

Quando ero bambina, per un problema di antenna, in casa mia non si vedeva Italia 1. Questo significa che, per me, tutti i lunedì mattina delle elementari sono stati una condanna. L’argomento, tassativo e perentorio, era commentare Mai dire (gol, e poi gli altri) che io puntualmente non avevo visto. Mi sentivo esclusa peggio dei lebbrosi nelle parabole, sapevo a memoria le tiritere di comici che non avevo mai visto, cercavo di bullarmi con imitazioni di imitazioni (e immagino servisse a ben poco…). Un patetico disastro.

Di cosa parlano a scuola i bambini di oggi? Come fa la ragazzina a far colpo sul nanetto di turno dicendo di aver visto di nascosto il suo violentissimo cartone animato preferito se questo può scegliere fra 300 canali diversi? Ai miei tempi c’era Ken, Italia 7 e ciccia. Ora si sentono su Snapchat per decidere cosa guardare insieme ciascuno chiuso nella propria cameretta? Me lo chiedo. Io credevo nel valore sociale della tv.

Tornando a noi, Matrimonio a prima vista Italia va guardato. Trattasi di esperimento sociologico riuscitissimo. Un tris di esperti forma delle coppie, basandosi su criteri scientifici di compatibilità (razza, religione, preferenze, carattere ecc.). I malcapitati volontari si conosceranno direttamente sull’altare e avranno un mese per decidere se rimanere insieme o divorziare.

Non mi raccontate, anzitutto, che i reality non sono veri. Non saranno reali, ma di certo non sono falsi. Se il loro scopo è spettacolarizzare l’animo umano, nella sua più intima e terrea essenza, ci riescono benissimo.

Non basterebbe la lanterna magica a camuffare certi personaggi, figuriamoci un montaggio raffazzonato e sbrigativo. Magari i tratti sono troppo spessi, le figure caricaturali, ma per chi ha un punto di vista privilegiato – il divano colmo di libri – l’essenza si coglie che è un piacere.

Ora spoilero, avviso gli affezionati del digitale terrestre. In Matrimonio a prima vista Italia scoppiano tutte le coppie. Quella con la ragione più valida chiede il divorzio perché lei non si lava i capelli. Tutto detto.

In realtà la decisione è a senso unico. Sono sempre i mariti a dire no e, a mio avviso, senza neanche troppi rimorsi. Potremmo risolverla con sessismo misto al topos del bamboccione, dicendo che in Italia non esiste un uomo tra i 20 e i 40 seriamente intenzionato a “salute e malattia, ricchezza e povertà”.

La tentazione è forte. Venghino signori venghino che di giochi per single arrapati è pieno il mondo, non solo la tv.

I pionieri del matrimonio alla cieca, in senso televisivo, sono stati gli americani. Hanno seguito i vichinghi, non ricordo se danesi o svedesi. Tutta gente che magari sarà stata un po’ sfigata, ma ci credeva parecchio nel trovare l’amore per sempre. Il matrimonio era un di più, uno stimolo ad affrontare l’esperimento con il massimo impegno e provandoci fino ai piatti rotti che, più spesso, si sono tradotti in lunghe cene alcoliche e silenziose. Insomma, gente che se andava male era triste, che non andava lì per litigare.

L’Italia è un paese cattolico, in cui il divorzio è peccato. Ma l’Italia è anche il paese di Uomini e Donne dove i tronisti possono uscire con cinque ragazze (e fra poco ragazzi) diverse nella stessa puntata, limonandole tutte senza che le signore del pubblico battano ciglio.

Tante, quindi, le scusanti sul capo dei tre mariti falliti. La sensazione che ho avuto, però, è più profonda. I tre matrimoni combinati non hanno funzionato soprattutto perchè la tolleranza è inesistente. Non riusciamo più a contemplare e comprendere il diverso, tra Brescia e Roma o Milano e Agrigento, tra commessa e avvocato o tra cazzone goliardico e maniaca del controllo (questi entrambi milanesi).

Il punto che queste coppie non hanno colto – e non coglieranno mai, su questi binari – è che le persone evolvono, cambiano e si rivoltano contro se stesse repentinamente e continuamente. E con esse i rapporti che avete con loro e il modo di concepirne il ruolo nella vostra vita.

La persona da avere accanto per sempre è la persona che vorrete comprendere ogni giorno della vostra vita. È quella che, pur cambiando, continuerà ad interessarvi. Quella con cui vorrete lottare ma che non guarderete dall’alto in basso.

A tutti è capitato di dire “non ti conosco più”. Questa è già di per sè un’ammissione di colpa: io non sono stato in grado o non ho avuto interesse a conoscerti ogni giorno della nostra vita insieme, quindi non so più chi sei. Hanno avuto un bel dire questi tre ometti rilevando che le loro mogli improvvisate hanno mostrato più di una faccia (sorridente) durante l’esperimento. Non sono durati un mese, ma con lo stesso atteggiamento nella vita reale – quella con l’inerzia e la routine – il risultato sarebbe stato migliore di poco.

Non è uno schema valido in assoluto, ma se un insegnamento ce lo vogliamo trovare credo sia questo.

L’amore non è un paese per indifferenti.

Guest star

Si era svegliato a fatica nell’ennesimo non luogo. Gli impegni della giornata erano pressanti, le responsabilità insistenti, ma queste continue trasferte lo lasciavano sempre un po’ scombussolato.

Trovava questi alberghi di nuova generazione vagamente asettici, nel loro minimalismo ostentato. Le pareti bianco brillanti e i pochi mobili futuristici, con cassettini, scomparti e rotelle. Per carità, le sistemazioni che sceglieva erano di gran lusso e gli garantivano tutte le comodità necessarie per affrontare al meglio una lunga e produttiva giornata.

Un dettaglio che proprio non sopportava erano quei prodotti da bagno così profumati, amava il suo sentore da macho e si vergognava un po’ all’idea di odorare come un damerino.  Ma queste erano le regole dello showbiz, le conosceva bene.

Dopo una doccia rigenerante, perse qualche minuto per una colazione veloce. Non era più abituato al caffè forte della moka, da quando viveva fuori. Gradì l’offerta di un caffellatte all’americana, lungo e consolatorio.

Il personale era gentile e professionale. Un ragazzo trasportò nella hall il suo guardaroba mobile, assai più pratico delle comuni valigie, e gli augurò in bocca al lupo. Non che i professionisti veri avessero bisogno di fortuna, ma gradì la cortesia.

Alle prime luci dell’alba era riposato e carico, pronto per il suo pubblico. Per un momento, si era scordato di Gunther II.

Aveva lasciato il suo prezioso bovaro bernese, dal manto fluente e armonioso, nella pensione per animali in fondo al parco. L’aveva scelta perché aveva un grande spazio all’aperto, adatto ai cani di grossa taglia che potevano così sgranchirsi e mantenersi in forma.

Lo slegò, lo abbracciò ricambiato da grandi feste e decise di portarselo al lavoro. Non avrebbe dato fastidio e una notte di distanza dal suo amico a quattro zampe era più che sufficiente, tanto più che la sua presenza lo rassicurava e lo faceva sentire a casa anche in quel paese straniero.

Camminando verso il teatro era solito ripetere la parte. Oggi era di scena un monologo di John Osborne. Lo aveva scelto per omaggiare il colto pubblico britannico e perchè si riconosceva in Jimmy Porter, antieroe rivoluzionario.

La violenza dei monologhi di Osborne lo liberava. In un’operazione pienamente metateatrale, amava che l’artista si fingesse zotico per affermare la natura sofisticata della sua arte. Era un po’ la storia della sua vita.

Arrivato a Covent Garden notò che il pubblico non era così numeroso come si sarebbe aspettato. Poco male, l’arte è per eletti e poi è ancora presto.

Scelse il suo piedistallo preferito e vi assicurò il carrello che conteneva tutta la sua vita. In ospedale era riuscito a fregare le pantofole, una risorsa in più per l’estate in arrivo.

Ai suoi piedi poggiò il cappello per le offerte, sotto lo sguardo pietoso di Gunther II, anch’egli perfettamente calato nella parte che la vita aveva scelto per lui.

Colpe e crepe

Lo so che voi un commento lo meritate e lo aspettate, dopo tutte queste parole.

Sono però un po’ ritrosetta.

Credo sia andata male, in giro ma soprattutto a Savona. Non solo questo ballottaggio mette in seria difficoltà chi con i vecchi lupi non avrebbe voluto schierarsi, ma pensare che la prima donna sindaco di Savona – comunque vada – sarà figlia di una mezza delusione, è triste.

Leggo che è iniziato il gioco delle colpe, soprattutto in casa PD. E’ colpa di Rete a Sinistra, ritornello abusato e del tutto fuori luogo. Ravera ha preso i suoi voti, pochi ma decisamente suoi.

E’ colpa di chi non ha voluto candidare Sorgini e Lirosi: 1000 voti buttati, come l’impegno nelle primarie, a questo punto.

La migliore è che la Battaglia non abbia saputo premiare il rinnovamento. Detto da chi fino a ieri si faceva messia e fanatico della nuova era, fa ridere se non piangere.

I Cinquestelle hanno, decisamente, sprecato un’occasione. Tralascio le loro beghe interne e i capofila d’ombra, perchè non conosco personalmente e perchè i panni sporchi possono lavarseli nel privato della loro baita.

Se è vero che era stata plausibile un’alleanza con Noi per Savona e se è vero che molti attivisti pentastellati, delusi dalla sofrocazia (si fa per ridere) interna, hanno ripiegato sulla Pongiglione il boccone è ancora più amaro.

L’impressione generale, già espressa, è che le idee in campo fossero poche e confuse. La battaglia ha dimostrato che quando l’appeal scarseggia per annullarlo basta parlarsi addosso.

E questo di sicuro non è mancato.

La distribuzione delle preferenze dà, in parte, una sensazione più positiva. Nel senso che in alcuni casi il lavoro sul territorio è stato premiante. Per pochi, ma meglio di niente.

Cosa faranno i savonesi il 19 giugno? Gli indiani, come hanno fatto in gran parte questa domenica. La politica è diventata cosa da pochi; vezzo da arrivisti o da scemi. Sono scema, molto scema. Ma pensate per un istante ad una parata festaiola capeggiata da Salvini.

Il porfido di via Paleocapa, dopo i lastroni di piazza Sisto, invoca aiuto.

Mi piace pensare che Savona città leghista sia un ossimoro. E che resti tale.

Notte prima degli esami

È fatta. Domani è giorno d’elezioni.

Dalle 7 alle 23, gli elettori savonesi potranno decidere il destino dei nostri candidati. Premiandoli a partecipare al Consiglio comunale – e a dirigerlo -, o rimandandoli. Chi a fra cinque anni chi a mai più.

Le sensazioni sono le stesse dell’ultima campanella, a scuola. Quando la luce brillante di giugno sbuca da una finestra per illuminare l’angolo di un banco sdrucito e scarabocchiato. Fra sbadigli ancora invernali e sogni già estivi.

Ci si chiede se si è studiato e prodotto abbastanza, si ammette che si sarebbe potuto fare meglio, si ripetono in testa scuse da propinare a parenti e amici, tanto c’è sempre chi “ce l’aveva con me”. Si freme per un risultato inaspettato.

Io sono una nostalgica patologica, non faccio testo. Ma questa campagna elettorale mi mancherà.

Prima di tutto perché è riuscita a riempire un periodo strano della mia vita, la costrizione al non lavoro e l’invalidità temporanea mi hanno senz’altro condizionata.

Inoltre, la voglia di parlare di politica e di Savona mi ha spinta ad aprire questo blog, un’esperienza che si sta rivelando divertente e gratificante.

Con la campagna elettorale, in realtà, si chiude in parte anche la mia vita casalinga. Lunedì i medici provvederanno a rimuovere i fili di sintesi che imbrigliano la mia manina destra e (se sopravviverò al dolore, ma non credo) piano piano potrò tornare alla mia vita.

I post si diraderanno, ve lo premetto. Ma la passione resterà intatta e cercherà un varco fra le pieghe del poco tempo a disposizione di una stacanovista trasfertista. Ve lo prometto.

Veniamo ai questionari.

Non sono riuscita a raccogliere tutti i candidati che avrei voluto e mi dispiace. Evidenziando la forte tendenza a sinistra delle mie interviste preciso, a chi vorrà credermi, di aver proposto la partecipazione anche a candidati di destra e pentastellati.

Dopo essere stati gentili nell’accettare le mie domande non hanno forse avuto il tempo o l’interesse per consegnare le risposte. Come biasimarli! Certo non offrivo la copertina di Internazionale.

I miei mezzi sono scarsi, la visibilità modesta. Come possibile collettore di voti, LaSignorinaNO ha fallito.

Poco male. Se anche uno solo dei miei lettori si è schiarito le idee sulla preferenza da dare il mio obiettivo è stato raggiunto. Se qualcuno di voi ha trovato curioso, utile o divertente un contenuto da me pubblicato, sono più che soddisfatta.

E niente. La malattia mi rammollisce.

Cos’è tutta questa positività SignorinaNO?

Ho un rigurgito, piccolo ma c’è.

In un’ottica del tutto generale vorrei dedicare un sonoro vaffanculo ai troll del web. In qualunque modo la pensino, sbagliano. Credono di essere arroccati in un castello virtuale inespugnabile da cui scagliare dardi infuocati, mentre in realtà non trovano neppure le pantofole e il coraggio per scendere a buttare la rumenta.

Io non so cosa vi spinga ad essere così aggressivi, sempre e continuamente. Se lo siete solo sui social o anche nella vita reale. Credo che le elezioni fungano da propellente per la vostra bastardaggine, ma non ci metterei la mano sul fuoco che commentando la cronaca siate meglio.

Date retta a me, più sesso e meno livore. Il savonese è già mugugnoso di suo, non servono gli straordinari.

Si può parlare di politica anche seneramente e con gentilezza. Questo spazio avrebbe voluto fornirvene la prova.

Cavallo (Savona Arancione): lavoro, lavoro e lavoro

Giovanni Cavallo abita a Legino e si definisce un “capo” spazzino.

La sua candidatura con Savona Arancione, a sostegno di Cristina Battaglia (l’unico sindaco possibile, secondo il candidato) ha lo scopo di trasferire il Consiglio nelle SMS di quartiere e in tutti i luoghi in cui l’aggregazionismo cittadino crea richieste e risposte.

La Savona della prossima giunta, secondo Cavallo, deve partire dal mugugno per risolvere i problemi di tutti i giorni. Primo fra tutti il precariato e l’assenza di prospettive lavorative per neo laureati e meno giovani.

In passato, nella concitazione elettorale, la sua candidatura è stata attaccata dal movimento Cinque Stelle. Per Cavallo è acqua passata, è dovere di un buon consigliere cooperare in maniera positiva con qualsiasi sindaco.

Fiducia e lavoro. Si rinasce da qui.

Chi sei, dove abiti, che lavoro fai?

Mi chiamo Giovanni Cavallo e faccio il capozona di ATA. Piu’ semplicemente faccio lo spazzino “capo”. Abito a Savona a Legino con la mia famiglia. Con Daniela mia moglie e Federico mio figlio.

Perchè hai deciso di candidarti?

Ho deciso di candidarmi perche’ il mio lavoro si svolge prevalentemente per la strada. A contatto con cittadini e commercianti. Loro mi hanno spinto a farlo. Mi hanno detto che serve una voce pratica. Ed allora ci sto provando.

Se fossi eletto, quali sarebbero le tue priorità programmatiche all’interno del Consiglio?

Ho ascoltato molto le richieste delle periferie. I cittadini hanno bisogno di sentirsi ascoltati. Quindi lo sviluppo di una rete di confronto attraverso le sms. E poi il patrimonio naturale boschivo della nostra citta’. Il volontariato come risorsa per far vivere la natura. Cacciatori, bikers, associazionismo vario in collaborazione con l’amministrazione possono fare molto.

A tuo avviso, una formazione professionale specifica incide sul buon operato di un consigliere o di un assessore? Se sì, quali competenze ritieni siano utili per amministrare Savona?

Vivere la strada, il mugugno ti da’ sicuramente un vantaggio per capire cosa puo’ essere migliorato. Credo che la citta’ vada vissuta. Come ho detto piu’ volte la politica deve uscire in mezzo alla gente. Per essere ascoltati i cittadini non devono entrare nel Palazzo, devono aspettare la politica fuori e spiegare dal vivo e sul posto cosa non va.

Indica quali sono, secondo te, i tre problemi principali di Savona.

  1. Lavoro
  2. Lavoro
  3. Lavoro

Scrivo la stessa cosa per i tre punti perche’ sono fermamente convinto di vivere in una bellissima citta’. E forse piace un po’ a tutti fare polemica. Ma l’unica cosa che manca veramente e’ la certezza del lavoro.

Quante e quali commissioni dovrebbero essere proposte per riuscire a risolverli?

Una commissione sul lavoro non c’e’ ma credo che qualcosa di simile si possa creare. Le commissioni analizzano le pratiche urbanistiche. Quando queste prevedono commercio od attivita’ in grande stile, credo che l’Amministrazione debba necessariamente in quelle sedi parlare anche di lavoro ed occupazione

Come pensi che il Consiglio debba operare per svolgere il ruolo di indirizzo e di controllo previsto dalla legge?

Utililizzando la legge. Battute a parte. Credo che sarebbe importante ridimensionare fortemente l’uso del consiglio per proposte passerella o personali. E’ il governo della citta’ ed e’ il posto dove la dignita’ e la parola del cittadino regna sovrana. Quindi onesti e coerenti per favore

In assenza delle circoscrizioni, come pensi di promuovere la partecipazione dal basso alle scelte amministrative?  Ha senso essere un “consigliere di quartiere” e come bisognerebbe farlo?

Questa e’ la base delle mie idee. Il rilancio delle sms ed il volontariato ad esse connesse. Non so se serva il consigliere di quartiere ma so che serve che muoviamo….le gambe…ed andiamo ad ascoltare. A prendere nota, per poi proporre. Incontri periodici reali. E risposte pratiche. Basta parole.

Qual è il tuo pronostico sulle elezioni? Cosa cambia se il candidato sindaco che appoggi non vince?

Pronostico Sindaco Battaglia, se non vince? Non penso possa accadere. Ma se dovessi essere eletto massima serieta’ in ogni caso. Non si scherza con la fiducia della gente

Con quale altro candidato sindaco ritieni di poter lavorare serenamente?

Con tutti. Non posso pensare che una persona che ha l’onore di essere candidato Sindaco di una citta’ importante come Savona non abbia l’intelligenza di lavorare con serenita’ con tutti.

In breve, la tua proposta concreta per la città.

Imparare dalle richieste della gente, per sfruttare al meglio la macchina comunale

2016, Savona città del chinotto. 2021  Savona città d…?

Della speranza negli occhi delle persone. Quello che i cittadini chiedono a gran voce anche senza parlare.